Attimi di... versi

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Informazioni sull'autore

Ezio Solvesi nasce a Trieste, dove vive, nell’agosto 1946. Ha lavorato fino al 2009 in varie industrie triestine elettroniche, prima come progettista, poi nel settore commerciale. Scrive fin da ragazzo, dapprima solo in italiano, successivamente, anche in triestino, tenendo però nel cassetto le sue opere per lunghi anni e rendendole pubbliche solo nel 2007. Ha partecipato a vari concorsi. Tra i premi più importanti: il 1° posto al XII Premio Letterario “C. Ulcigrai” di Trieste, il 1° posto al VII premio letterario “Una terra nell’anima” del MAI di Trieste, per due volte il 1° posto al II e al III premio letterario “Trofeo colle San Giusto”, il 1° posto all’ VIII, IX e X premio letterario “Golfo di Trieste” e il 1° posto al I premio letterario “Gens Adriae” di Trieste. Numerosi i premi minori e le segnalazioni. Le sue liriche sono state anche oggetto di “readings” di poesia e di recite teatrali, con accompagnamenti musicali. Alcune poesie sono pubblicate in antologie e sul volume celebrativo dei 150 anni del Circolo Culturale delle Assicurazioni Generali. Nel dicembre 2013, presenta le sue poesie nella trasmissione “Le Parole più Belle” di TV-Capodistria. Nel settembre 2008, E. Solvesi ha pubblicato una silloge di liriche dedicate alla città di Trieste con il titolo “Trieste cussì cocola” (ed. Italo Svevo - Trieste). Nel maggio 2011, estende l’omaggio alla sua città pubblicando il suo secondo libro di poesie: “Trieste a colori” (ed. Italo Svevo - Trieste), che comprende anche alcune foto di opere dell’artista concittadino Enzo E. Mari

Codice: 978 - 88 - 98838 - 12 - 7

Autore: Ezio Solvesi

Editore: Talos edizioni

Anno: 2014

Genere: Silloge poetica

Prezzo libro: 13.0 €

Prezzo PDF: 0.0 €

Nº pagine: 96

Dimensioni: 12*20 cm

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Trama

PREFAZIONE DI GRAZIELLA ATZORI Dai versi di Ezio Solvesi scaturisce, immediatamente, la domanda: da dove viene la poesia? La sua, come quella di tutti i poeti, viene, simbolicamente, da lontano; ovvero dalla nostra profondità, dall’inconscio, dall’intuizione. Certo non è frutto di un calcolo. Dobbiamo fare posto alla Poesia, e Solvesi lo fa con una facilità e una leggerezza che stupisce. A buon diritto, va inserito in quel filone che Pasolini ha chiamato “poesia sabiana”, contraddistinta da due peculiarità: la limpidezza dell’assunto – e l’autore è leggibilissimo, non ha bisogno nemmeno di commento; la sua poesia è simile a una fonte che zampilla. Pregio questo non secondario, dato che un poeta è, o dovrebbe essere, la voce di molti, se non proprio di ciascuno. – e la capacità affabulatoria, l’arte di raccontare, di creare miti. L’etimo greco μύθος (mythos) significa racconto, e questa raccolta, come vedremo, è ricchissima di racconto. Quindi “sabiano” a tutto tondo con, in più, la caratteristica, tutta sua, di tenere l’ego tre passi indietro. Il poeta si fa portavoce, ambasciatore. Il suo ego rimpicciolito sta in disparte. È un’attitudine speciale, privilegiata da Brecht. Solvesi poeta “visivo” – infatti si occupa anche di fotografia – oggettivo, lascia in chi vi si accosta una traccia immaginativa, sedimenta grande sentimento unito a meditazioni e riflessioni. Possiamo definire la sua poetica di fondo come “poesia del sorriso”. La parola sorriso è refrain ricorrente, gentile esortazione e visione del mondo. È un sorriso miracoloso. Tante volte è lì dove non ci aspetteremmo che fosse: in mezzo al dolore, al dramma più crudo, costituisce il paradosso che induce il pensiero a rivedere se stesso, imprimendo alla nostra filosofia quotidiana la capacità di affrontare la vita sempre, comunque essa sia. Si tratta di una presenza sottile, spesso stringe il cuore, quando il poeta addita bambini sofferenti prigionieri di calamità e indigenza, ma con occhi pieni di luce, nonostante tutto sorridenti. Essi potrebbero non sorridere, vivono un’infanzia violata, eppure lo fanno, quale lezione etica dunque impartita nei versi. E abbiamo anche un sorriso appeso, in cimitero, e il sorriso della prostituta, a nascondere il suo dramma. Splende il sorriso magnifico e roseo della Val Rosandra. La vita può essere pesante, tragica, eppure il sorriso regala sempre una speranza. Il poeta ha suddiviso la raccolta in gruppi tematici: la natura in primis, segue la visione della sua città, Trieste, quindi la poesia sociale ed epica, nucleo forte, essenziale. Poi il capitolo di poesie varie, intitolato “attimi”, e infine, last but not least, la poesia familiare, delicatissima, che lo riguarda direttamente. Anche questa sequenza avvalora quanto detto sopra: si parte dall’esterno, dal mondo fuori, da ciò che è corale, condiviso, per approdare, via via, alla vicenda personale, intima, agli affetti messi in scena con squisito pudore, dove con “pudore” va inteso quel senso di esclusiva appartenenza, mostrato attraverso piccoli ma intensi quadri, accennati con il tremore degli eterni innamorati.. La natura quindi. Notturna, per lo più, o invernale. Questo scenario potrebbe indurre a malinconia e anche, forse, al pessimismo: niente di tutto ciò. Il notturno è un notturno romantico, come lo sono i Notturni di Chopin. Il poeta ruba briciole di luna per farci sognare, le ruba per noi. Il paesaggio, ancora una volta, è oggettivo. Abbiamo i capelli delle alghe sugli scogli, e l’inverno di una Val Rosandra ghiacciata che si ridesta con un “useleto”, il mattutino offerto è gravido di speranza. Anche la notte ha un significato allegorico. Porta sempre un nuovo giorno, nuova luce e impavida avventura di vita. La poesia ambientata in un cimitero contiene una bellissima immagine delle “vecchie che raccolgono i fiori secchi con gesti stanchi di lunga attesa”. Toccante l’attesa, sottintende la capacità di accettazione, una forza morale espressa con parsimonia, tanto più incisiva rispetto a fiumi di parole che niente avrebbero aggiunto all’iconografia. Capacità di attendere a lungo: che cosa? Si può pensare alla speranza di rivedere i propri cari trapassati, il poeta non lo dice, ma la poesia, la miglior poesia, è sempre allusiva. Indica, qui con delicatezza, ancora una volta con dolcezza. Il tema sociale apre una sezione dolente. È la poesia dei vinti, secondo Verga. Una profonda “pietas” fissa lo sguardo sulle vicende di persone che stanno ai margini o che sono state barbaramente uccise. Appaiono le figure urbane più sofferenti: la barbona, un fagotto di stracci. Il poeta non ricorre al pietismo, usa toni asciutti, intensi e stringati. Questa povera creatura è sì ultima, ma occhi azzurri possiede, come il cielo, uno sguardo timido. L’accenno al cielo con un paragone calzante; in un lampo di azzurrità, rende memori del discorso evangelico pronunciato sulla montagna: gli ultimi saranno i primi. La poesia, quando richiama pensieri alti a cui possono seguire gesti concreti e solidali, ha davvero assolto uno dei suoi compiti, quello pedagogico e formativo. In quegli occhi, “si specchia, azzurro, il cielo”. La protagonista è già prima in una poesia, pur essendo ultima ogni momento e in ogni istante. Protagonisti, come già detto, i bambini violati, dimenticati e rimossi dalla coscienza, per un attimo ripresi nelle immagini dei reporters, alla tivù e neppure molto spesso. Bambini che, pur non possedendo nulla, sono sempre capaci di sorridere, conservano il fuoco primitivo della vita, occhioni brillanti, emanano gioia, riconoscenza per quanti li soccorrono. Solvesi li restituisce integralmente, preziosi detentori di vitalismo. Risorsa che la nostra civiltà stanca perde via via, sempre più. La prostituta ha il suo modo tragico di essere, non adescante. “Ornata di malinconico sorriso”, turba e ferisce. Il poeta non dimentica di accennare che, poco più in là, nel buio della notte, in un bar, sta il “il padrone di quel corpo”. Nessuna condanna, né atteggiamento bigotto; l’artista chiama alla responsabilità, evidenzia l’origine del fenomeno, l’egoismo, lo sfruttamento, chiara impronta di una società maschilista. La lirica ambientata nella metropolitana fornisce lo spaccato di una grande città (non è Trieste, per fortuna) con le sue ombre e i suoi inferni. La poesia epica è difficile. Si può usare la mano pesante nel trattare i temi più scottanti. Invece, in questo volume, ancora una volta, prevale il tono lirico. Ancora una volta il poeta trasforma, come recita De Andrè, il fango nei fiori… e dal fango nasce qualcosa che può essere sublime. Lo ricorda Saba, nella poesia Cittavecchia, abbozzando il quadro del lupanare, scrive che, dove la vita è più oscura, lì vive il Signore, risplende l’icona di Dio. Il poeta non nomina il Signore, ciononostante la sua è una visione altamente cristiana. Pur non conoscendo cosa pensi egli in merito, sento di poter affermare: ecco una lirica vicina al Vangelo. Il culmine dell’abominio e della pietà sono forse toccati nel rievocare indelebilmente una visita a Mauthausen. Rievocare questo luogo sintetizza tutto il martirio patito da milioni di creature, sacrificate alla follia sadica nazista. Qui “ad ogni passo calpesto un dolore”, si ode un sospiro che non si estinguerà, mentre uccelli neri stanno a simboleggiare sia la nefandezza, sia un pianto perpetuo, nero, la luce è estinta. “Se questo è un uomo”, ripetiamo con Primo Levi. Nelle poesie dedicate all’amata Trieste, una città celeste, “azzurra” secondo Saba, quindi icona del bello, il poeta ci introduce nella triestinità con una immagine luminosa, esuberante e gioiosa: la gara della “Barcolana”, la più grande manifestazione di navigazione a vela nel mondo. Di seguito, con un suo sguardo, un taglio tutto particolare, giocato tra passato e presente, Solvesi restituisce Trieste al lettore. La città conserva la sua anima sempre identica, tutto sommato. È una terra ubicata tra mare e Carso, geograficamente ristretta, ma protesa, scrive il poeta, verso l’infinito. Anima sempre un po’ in tormento. Lo testimonia il dialetto, una parlata veloce, frettolosa, ventosa. L’immagine di Ezio, bellissima, riguarda lo storico Caffè Tommaseo. Rimembra per noi una Trieste opulenta, che si concedeva e si concede pause felici. Al suono di un violino, il poeta, con gli occhi chiusi, sogna il Caffè che fu, che è sempre, con i suoi tavolini di ghisa e marmo antico. È un’antichità che non è stasi, non città addormentata, ma tempo sospeso, eternità, quindi metafora, un angolo di paradiso questo caffè. Egli immagina e sogna merletti, vestiti ottocenteschi, Trieste mitteleuropea. Cambiando scena, ecco la Trieste medioevale rimodernata. Questa sì è diversa, necessariamente mutata: oggi possiede odori di cibi esotici, forse più luce nelle case grazie ai restauri, ai nuovi assetti urbanistici consoni al benessere. Il rione è abitato da altri ceti sociali, facoltosi, la città vecchia è destinata a una élite, diventa elegante con fascino rétro, mentre un tempo era quartiere popolare. Però, si può ancora trovare un androne, vittoria della poesia e della nostalgia, esiste ancora una porta aperta, secondo l’antica abitudine, dietro la quale canta qualcuno. La porta aperta significa molte cose: parla di fiducia, solidarietà, condivisione, di una vita non gelosa della propria intimità, che si apre allo sguardo e alla simpatia dell’altro. Si può trovare, in Cittavecchia, ancora una rosa su una finestra, in un boccale. Trieste era questa ed è ancora questa! Città a misura d’uomo dove vivere è gioia: cara Trieste, senza retorica. Le vie sono abitate da persone che riescono a godere di natura e mare che entra fin dentro, fino all’abitato. Solvesi raggruppa alcune liriche di vario soggetto sotto il titolo “Attimi”, permeate dal colore cangiante della precarietà, momento significativo e fine a se stesso. Sono tali diverse immagini: il petalo di un fiore che resiste, caparbio, roseo simbolo di speranza; il treno, tradizionale figura del nostro viaggio terreno. La sezione sembra esortare: fermati, rallenta il passo, contempla, cattura meditazioni che passano e volano, i momenti fugaci. Essi possono offrire lo spunto per comprendere la nostra anima e chi siamo. Fugaci noi pure, sospesi nel mistero. Una poesia fotografa il primo maggio, con i suoi colori di fiamma, tributo al lavoro, spina e gloria, corona dell’uomo. L’ultimo gruppo di liriche, dedicato all’amore e alla famiglia, racchiude versi toccanti. Il poeta commuove con l’epopea di un amore eterno, detto con profonda verità. Solvesi richiama, per analogia con la sua vicenda d’amore coniugale emblematica, un grande mito: quello di Ettore e Andromaca, sposi per sempre. Un’epica quotidiana in estinzione, sempre più rara al giorno d’oggi. De Chirico, in un suo quadro, riprende Ettore e Andromaca, dipinti come due manichini. Le due figure statiche e legnose simboleggiano il non amore, l’amore che non c’è. Nasce grande malinconia da questo capolavoro rivisitato in chiave moderna. Di contro, posso immaginare le due figure omeriche classiche, amanti perfetti, aleggiare nei versi del poeta, perché qui l’amore c’è. Ettore e Andromaca, certo, nella finzione fantastica di ciò che realmente non si è estinto. Il paragone è calzante, sotto questo profilo. Rievocare il bambino Astianatte, lo sovrappone o lo pone accanto a una nipotina dei nostri giorni, tenera bambola tra le braccia del poeta. Questi non indossa l’elmo piumato e pauroso come il prode Ettore, ma possiede una barba, elemento iconografico del suo ruolo parentale, ornamento da esplorare con la totale confidenza della bimba. Che dire poi, dei baci? Nella poesia amorosa non possono mancare… Due baci ci sono: il bacio della mattina, a suggellare il buongiorno, e il bacio della sera, coronamento e riposo. Sintesi di una vita intera, una giornata finita testimonia un sentimento infinito. Non siamo spettatori di erotismo, che si può anche intuire; la scena si svolge, infatti, in una stanza da letto. È protagonista il moto del cuore, il sentimento in grado di superare le apparenze, le forme che il tempo muta, a favore di ciò che non può deteriorarsi, mondo interiore. Dulcis in fundo, ecco la veglia del poeta mentre l’amata dorme. È una lirica di dialogo non verbale, dialogo che accompagna il sonno, lo scavalca e supera. Non vi è distanza, tra i due, neppure nel mondo onirico. Una bellissima canzone cantata magistralmente da Gabriella Ferri, uno stornello romano, “Mina se voi dormite” riprende lo stesso tema universale. Le tematiche fra i poeti si ripetono e si rincorrono. Probabilmente Ezio Solvesi non conosce questo stornello, ma a modo suo lo ripropone inconsapevolmente. Buona lettura, dunque, e auguriamoci che questo amore magnifico ci sfiori almeno un poco con le sue ali.